Pari, ma diversi. Ora la rivoluzione

Per Cristina Comencini, scrittrice e regista, occorre lavorare per un mondo a due sguardi. Serve più coscienza: da parte delle donne su cosa sia normale, gli uomini devono accettare di mettersi in discussione, tutti.  

«Guardi, è un cambiamento epocale. È come se fossimo nel mezzo della Rivoluzione francese. Solo che è qualcosa iniziato da più di un secolo, e ha bisogno di tempo, perché alle spalle abbiamo millenni di un equilibrio difficile da rompere». Cristina Comencini, 67 anni, regista, sceneggiatrice e scrittrice, romana con radici bresciane (papà Luigi, il grande regista, era nato a Salò, prima che la famiglia si trasferisse in Francia), di certi temi parla da una vita, da molto prima che la «parità di genere» entrasse tra i 17 Goal dell’Agenda Onu 2030. Lo fa nei libri (fino all’ultimo, Flashback), nei film, negli interventi pubblici. E accetta di discuterne con Riflessi – mentre è impegnata sul set de Il treno dei bambini (tratto dal romanzo di Viola Ardone) – proprio nei giorni in cui l’Italia è scossa dalla tragedia di Giulia Cecchettin, la studentessa veneta di 22 anni assassinata da Filippo Turetta, l’ex fidanzato. Una ferita profonda, di quelle che fanno piangere e urlare di rabbia. Ma chiedono anche di riflettere, perché è l’ennesimo anello di una catena troppo lunga: era il femminicidio numero 105 dall’inizio dell’anno, e purtroppo non è stato l’ultimo.

 

Si parla molto di parità, c’è una sensibilità che non c’era anni fa sull’argomento, eppure certe tragedie continuano a succedere. Perché?

Anzitutto, non credo si debba parlare di sensibilità: meglio chiamarla coscienza, perché c’è un elemento di razionalità forte, dentro. Ci deve essere. Ma il punto è che è in atto, in tutti i Paesi occidentali, una rivoluzione enorme. Le donne hanno cambiato il loro posto nella società e nella famiglia, nel privato e nel pubblico. O meglio, lo stanno cambiando, perché questa dinamica non è ultimata. È una rivoluzione profonda, ma lenta. E, almeno da parte delle donne, non sanguinosa. Ma la reazione a una rivoluzione, come sappiamo dalla storia, è sempre formidabile, perché la società di prima non vuole andare verso il nuovo. E in questo caso, il problema centrale sono gli uomini.

 

Perché?

Le donne vogliono il cambiamento, e lo stanno costruendo a partire da un’identità collettiva. È un fatto visibile già dal femminismo anni Settanta, a cui tante di noi hanno aderito avendo chiaro un punto: «Io non sono uguale alla donna che mi marcia accanto, siamo lontane per età, per esperienza. Però c’è qualcosa che ci appartiene e ci accomuna: la condizione subalterna nella società». Da questa analisi è iniziato un lavoro profondo. Ci siamo interrogate su tanti argomenti: la sessualità, la maternità, il rapporto con gli uomini… Io ne ho fatti i temi centrali di molti libri, per dire. Ma sul versante maschile non c’è stato questo passo. La maggioranza degli uomini, che non picchiano e non uccidono le donne, non si sentono affratellati, anche se in maniera negativa, a quelli che uccidono. Non lo sentono come un problema loro. Ed è un errore. Perché impedisce una riflessione vera sui loro sentimenti, bisogni, dipendenze. E blocca il cambiamento.

 

Però tanti sono disponibili a farla, questa riflessione: sul caso di Giulia abbiamo letto molte autocritiche al maschile…

Alcuni ne scrivono, ma il sottofondo quasi sempre rimane: «Io, però, non sono così». E in questo modo non si arriva a niente. Perché è solo da una riflessione collettiva sulla funzione ricoperta da sempre da uomini e donne che si può avviare la trasformazione. Qualche giorno fa stavamo girando una scena in una cascina, in Emilia. Serviva una mucca, e un contadino ce l’ha portata. È arrivato sul set, stava davanti a me, e cercava il regista. Quando ha capito che il regista era una donna, mi ha detto: «E allora gli uomini che cosa diventano?» Vede? L’ha messa in maniera semplice, ed era pure simpatico, ma questo è il punto: «E allora noi?».  È un fatto che interessa tutti gli uomini. Chiede una revisione profonda.

 

Ma non le pare che i giovani di oggi siano più attenti a questi temi?

Dipende. Il punto vero è che cosa vuol dire essere un uomo oggi. È ragionare su tutto un sistema di valori: non solo su quello che diciamo, ma su quello che siamo. L’uomo giovane oggi si chiede: «Dov’è la mia forza? In che cosa consisto?». Quel ragazzo, senza Giulia, si sentiva perduto. Io non mi voglio porre il suo problema: mi pongo il problema di lei, che è morta… Però in giro vedo una grande debolezza. Anche se tantissimi ragazzi non arriveranno mai a fare qualcosa di simile, però soffrono del cambiamento in atto, della trasformazione di una centralità maschile che non è più quella di prima.

 

Come si incide su un problema così?

Anzitutto, bisogna prenderne coscienza. Una decina d’anni fa ho scritto un pezzo teatrale, L’amavo più della sua vita, che ha girato molto nelle scuole. In scena ci sono un ragazzo e una ragazza: il migliore amico di lui ha ucciso la migliore amica di lei, perché lo stava lasciando. E loro, in mezzo a tanta sofferenza, ne parlano. Ecco, il problema è parlarne. Tra i giovani, nelle scuole… Dappertutto. Sarebbe strano che non ci fosse una reazione di fronte alla centralità che hanno assunto le donne nella società.

 

Ma basta istituire i corsi di affettività nelle scuole?

A me non piace la parola “affettività”, ma parlare di cosa significhi essere un uomo e una donna oggi, secondo me, è importante. Non basta, ma aiuta. Forse gli uomini non hanno chiaro che cosa significhi per una bambina stare in una scuola in cui nei libri non c’è neanche un’altra sé stessa… A me è successo, ma io mi sono posta questo problema solo da adulta: prima mi sembrava normale.

 

Quando ha capito che c’era qualcosa che non tornava, che la donna era considerata meno importante e che la sua stessa libertà, in qualche modo, contava meno di quella degli uomini?

È stato un lavoro lungo, che ha coinvolto anche la mia professione artistica. Io sono stata educata alla libertà. Mia madre non lavorava e ha cresciuto i figli, ma i miei genitori non pensavano assolutamente che noi dovessimo fare come loro. Per mio padre la cosa fondamentale era che avessi un lavoro, prima di mettere su famiglia. Siamo state preparate ad essere libere. Solo che tutto ciò che abbiamo trovato quando ci siamo affacciate alla vita adulta non corrispondeva a questo desiderio. Tutte le questioni erano rimaste irrisolte. Non c’era la parità. Ma non si coglieva neanche l’importanza di essere donna, che è la base della differenza, ovvero di quello che io considero il cuore della grande rivoluzione delle donne: portare nella storia la loro differenza. Io me ne sono accorta facendo il mio lavoro di scrittrice e di regista, perché tendevo a raccontare le nuove famiglie, i nuovi rapporti tra uomo e donna, con i figli… Cercavo di portare alla luce tutti quei silenzi, quel mondo della casa che era, ed è, un mondo fondamentale per tutti, ma era poco raccontato dallo sguardo delle donne. Nell’ultimo libro, Flashback, c’è addirittura la cavalcata nelle rivoluzioni di questo sguardo.

 

Le protagoniste sono quattro donne comuni, non famose, alle prese con altrettanti momenti forti della storia, dalla Comune di Parigi alla Rivoluzione d’ottobre, alla Resistenza, alla rivoluzione sessuale degli anni Sessanta. Sono le donne “normali” a fare la storia?

Esattamente. Un po’ come succede nel film di Paola Cortellesi, bellissimo e capace di suscitare un’onda di pubblico altrettanto bella. A me interessava molto l’illusione delle rivoluzioni: ogni rivoluzione si è portata dietro l’idea che sarebbe stato un cambiamento anche per le donne, ma poi non è successo mai. Almeno fino ad oggi. Ai nostri giorni sta compiendosi qualcosa di nuovo. Questo equilibrio si sta aprendo. Ci vorrà tempo, ma io intravvedo una società meravigliosa, molto più ricca: perché lo sguardo sarà di due, non di uno.

 

Appunto, prima parlava dell’importanza della differenza. Non rischiamo di perderla per strada, nel percorso verso la parità? C’è un modo di rivendicare l’uguaglianza che tende a eliminare le differenze…

È il grande dibattito di oggi, ed è un tema complesso. Nel momento in cui le donne si sono collettivamente date una forza, assumendo la loro storia e la loro identità e portando questa differenza anche nella polis, nella vita sociale, nell’arte, c’è una parte di loro che ha detto: «Va bene, ma forse dobbiamo farla finita proprio con questa storia che ci portiamo dietro». Come se dire “donna” fosse di per sé sinonimo di subalternità. E quindi c’è tutto un filone del femminismo che, in qualche modo, tende verso una civiltà del neutro. Per me, sarebbe un passo indietro. Una volta che finalmente siamo entrate nella storia, che stiamo iniziando a lavorare per un mondo a due, eliminiamo la differenza?

 

Come definirebbe la parità?

Pari, ma diversi. Con lo stesso valore, ma differenti.

 

Questo tema può essere un terreno d’intesa anche per una politica che fa fatica a parlarsi? In Italia abbiamo per la prima volta due donne ai vertici di governo e opposizione…

Guardi, nel 2011 organizzammo una delle prime grandi manifestazioni di piazza per la dignità delle donne. Beh, era trasversale: parlò tanta gente di sinistra, ma intervenne pure Giulia Buongiorno, per dire. Perché al di là delle differenze giuste – che ci devono essere: la politica vive delle differenze –, la rivoluzione delle donne mette al centro qualcosa che va oltre. È come se ci fossero due strati: la differenza che ogni donna ha come pensiero politico proprio, e il fatto che riconoscerci come donne ci accomuna. È una dinamica molto interessante, e bella da agire. Poi si tornerà ad essere diverse e a discutere anche in maniera animata, perché la mia parte sicuramente non è quella della Meloni e viceversa, ma un lavoro comune è possibile.

 

C’è qualche fatto che le dà speranza?

Per esempio, vedo dei giovani padri meravigliosi. Bravissimi con i bambini, vivono il loro desiderio di fare i padri, ma sentono anche il bisogno che ci sia parità nel rapporto con le donne. Che non vuol dire essere uguali appunto, perché padre e madre sono diversi; ma con la stessa importanza. Questa è una cosa enorme. Da un lato non lascia le donne sole, e dall’altro permette finalmente di scoprire la bellezza dell’essere padri. Accorgerti che puoi viaggiare con i figli, starci insieme da solo, dare il tuo contributo maschile, profondo, intimo, ai loro sentimenti, tutto questo ha un grande valore. Il padre di un figlio maschio che possa ragionare con lui a fondo su questi temi, per dire, cambia radicalmente le cose. Ce ne sono. E spero che ce ne saranno sempre di più.

 di Davide Perillo

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