Il rischio zero non esiste
Anche la cronaca del nostro territorio ha dovuto fare i conti con le frane, sul Garda e in alta Valle Camonica. All’Università degli Studi di Brescia sono materia di studio quotidiana per un gruppo di ricercatori, guidati da un paio d’anni dalla professoressa Lorella Montrasio, ingegnere con un PhD e Ordinario di Geotecnica, oltre che esperta del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.
“Le frane sono un tema estremamente complesso, accadono con sempre maggiore frequenza e con diversi livelli di gravità e le cause che le generano sono molteplici. Quello che sappiamo con certezza, ed è stato anche scientificamente provato, è che la causa scatenante sono le piogge abbondanti. Ma non è sufficiente conoscere quanta pioggia cadrà per prevedere l’innesco delle frane pluvio-indotte. Per intenderci, può anche capitare che del medesimo pendio, soggetto alla medesima pioggia, una parte frani e l’altra no. Anche piccole differenze nelle caratteristiche del territorio e del sottosuolo possono portare a esiti diversi”, spiega Montrasio.
Il fenomeno però non dev’essere sottovalutato, perché “gli smottamenti generati da piogge, ovvero le frane pluvio-indotte, possono evolvere in colate di fango e detriti che raggiungono anche velocità di 10 metri al secondo e che possono percorrere grandi distanze dal punto d’innesco”.
Quali sono i fattori che aumentano il rischio che si verifichino frane?
“Non possiamo mai escludere che si possa innescare una frana in caso di pioggia, là dove esiste un pendio. In collina e in montagna il rischio zero non esiste. Oltre alla pioggia, ci sono altre possibili concause, ma è molto complesso quantificare l’incidenza di fattori quali: la situazione idraulica locale, la gestione del territorio limitrofo, la mancata pulizia dei corsi d’acqua ecc. ecc. I nostri studi considerano i fattori principali, ovvero le precipitazioni e le condizioni del terreno, per prevedere se e dove si verificheranno delle frane. Ci concentriamo in particolare sulle zone abitate e sulle infrastrutture viarie: strade, ponti, ferrovie… Sono queste infatti le aree in cui una frana potrebbe causare i danni maggiori: alle persone, alle abitazioni, alle vie di comunicazione, che in quel caso dovranno essere chiuse, con tutti i disagi che ne derivano, in particolare in zone montane, dove la rete stradale non offre alternative ai collegamenti principali”.
Come i vostri studi possono avere degli effetti concreti nella prevenzione e nella gestione delle frane?
“I nostri studi scientifici sono teorici, ma studiati per essere applicati, ed è per questo che collaboriamo molto con gli enti pubblici, per aiutarli a individuare le zone a rischio nei territori di loro competenza. Abbiamo validato modelli e creato piattaforme che ci aiutano a individuare zone a rischio. Di fronte a questa consapevolezza è possibile agire in due modi: installando sistemi di difesa o investendo in prevenzione”.
Quali possono essere i sistemi di difesa?
“Se si tratta di rete viaria, possono essere delle gallerie superficiali a protezione di strade, viadotti, ferrovie: in questo caso parliamo di protezione passiva poiché l’innesco delle frane non viene prevenuto: ma in caso si verifichi, il percorso ed eventuali persone o mezzi in transito sarebbero protetti.
In alternativa si può cercare di prevenire il fenomeno con tecniche naturalistiche, con la piantumazione. Le radici delle piante coinvolgono piccoli spessori di terreni, al massimo un metro, un metro e mezzo di coltre (la stessa che si può trasformare in frana pluvio-indotta). La presenza di vegetazione fa sì che filtri meno acqua nel terreno grazie alla protezione delle foglie; ma non solo: le radici rinforzano il terreno, rendendolo più resistente, anche assorbendo parte dell’acqua presente nel terreno stesso. Non tutto il terreno è piantumabile, pertanto le soluzioni migliori vanno valutate di volta in volta, a seconda della zona che risulta potenzialmente a rischio. Anche la regimazione delle acque può essere utile nella prevenzione attiva. Ciò che invece è impiegabile su tutto il territorio antropizzato, a tutela della popolazione è l’allerta della popolazione che deve essere la più precisa possibile. La ricerca si dedica con la massima attenzione a questo aspetto, e sono disponibili sistemi che sono stati calibrati e valutati massivamente, pronti per essere messi a disposizione degli enti preposti alla difesa del territorio; non sempre, però, vi è sufficiente comunicazione fra ambiente scientifico e non. Le indicazioni dei ricercatori talvolta restano lettera morta, e non vengono tradotte in azioni che potrebbero essere utili”.
Qual è la situazione in Valle Camonica?
“Sono arrivata all’Università di Brescia meno di due anni fa, e attualmente stiamo svolgendo una ricerca con una nostra tirocinante che in collaborazione con la Provincia sta analizzando lo stato della Valle Camonica. Per verificare i movimenti del suolo utilizziamo anche dati satellitari, ma non sono sufficienti; solo grazie alla conoscenza del territorio che può esserci messa a disposizione dagli enti locali il quadro conoscitivo degli eventi che sono avvenuti diventa patrimonio per affinare sempre più i modelli di previsione delle frane. Gli enti locali, aiutati dai cittadini e dalle organizzazioni territoriali conoscono la geografia e la storia della zona, quando si è verificato un certo evento e che conseguenze ha avuto: una miniera di informazioni che ci è indispensabile per applicare i modelli previsionali di allerta a quelle zone con la massima precisione. Noi possiamo produrre piccoli campi prova per confrontare le simulazioni con i modelli di laboratorio, ma niente può sostituire l’esperienza di chi vive il territorio”.
Prima parlava di sistema di allerta. Crede che le persone siano attente a queste segnalazioni?
“Temo che le sottovalutino, come sottovalutano la pericolosità da frane e i rischi derivanti dal loro innesco. In parte perché non sempre dopo un’allerta si verificano effettivamente eventi pericolosi. Anche per questo è importante che i sistemi di allerta si basino su modelli affidabili, così che la popolazione non li ritenga poco utili. Se vivo in pianura e sono annunciate piogge e allerta idrogeologica, evito di fare passeggiate in montagna e la portata di errori di valutazione sulla mia quotidianità è modesta. Molto diversa è invece la situazione di chi ci vive e deve prendere provvedimenti per proteggere sé e la propria casa, fino alla decisione di allontanarsene per un periodo. Gli errori hanno conseguenze pesanti sul quotidiano e la necessità di evitare falsi allarmi o sottovalutazioni del pericolo è prioritaria.
Pertanto le allerte vanno usate quando serve, e spiegate bene. Anche in questo caso non si può prescindere dalla collaborazione fra studiosi ed enti locali. In passato ho collaborato con la Protezione civile nazionale, validando i modelli previsionali che oggi in Università, a Brescia, abbiamo implementato in una piattaforma predittiva per le allerte da utilizzare per il nostro territorio. Se non possiamo impedire il verificarsi delle frane, possiamo però tutelare le persone allertandole correttamente; nel caso delle costruzioni o della rete infrastrutturale esistenti, possiamo, prendere precauzioni (dalle realizzazione di opere di protezione, alla regimazione delle acuqe, agli interventi naturalistici… ecc… ecc) che le difendano mentre nel caso di nuove costruzioni, possiamo realizzarle tenendo conto della pericolosità (e dei rischi conseguenti) legata alla morfologia e alle caratteristiche geologiche del territorio”.