Circolarità e responsabilità: i due concetti chiave della Moda Sostenibile
L’industria della moda, responsabile del 10% delle emissioni globali, ha dimostrato negli ultimi anni tutta la sua insostenibilità, imponendo un ripensamento dell’intero ciclo di vita dei prodotti. Il concetto di “moda sostenibile” guadagna terreno, diventando sempre di più un’alternativa reale per tutti coloro che hanno a cuore la sostenibilità di prodotti e servizi che acquistano.
L’incidente del Rana Plaza, avvenuto il 24 aprile 2013 in Bangladesh, ha segnato una delle tragedie più devastanti nella storia dell’industria della moda e ha rappresentato un evento spartiacque per l’intero settore. Il crollo dell’edificio, che ospitava diverse fabbriche tessili, ha causato la morte di oltre 1.100 persone, portando all’attenzione globale le terribili condizioni di lavoro di milioni di operai del settore. Le rivelazioni emerse a seguito dell’evento e il silenzio delle grandi aziende multinazionali che da quelle fabbriche tessili si rifornivano hanno sollevato dibattiti e riflessioni non solo riguardanti i diritti dei lavoratori, ma l’intero impatto ambientale e sociale di un sistema produttivo evidentemente insostenibile.
Una struttura insostenibile
Il settore della moda è la quarta industria più grande a livello globale, con un valore stimato di circa 3 trilioni di dollari, che contribuisce al 2% del PIL mondiale. Si tratta di un sistema estremamente complesso, caratterizzato da una filiera globale frammentata e difficilmente tracciabile – anche per le aziende stesse -, il che rende estremamente complicato comprendere davvero l’impatto dei capi che arrivano sul mercato.
Secondo le stime dell’ONU, in termini ambientali, il settore della moda è responsabile di circa il 10% delle emissioni globali di gas serra. Inoltre, il processo di produzione tessile consuma quantità ingenti di risorse naturali: la produzione di cotone, ad esempio, richiede una mole enorme di acqua – si stima che per produrre una sola t-shirt ne siano necessari circa 2.700 litri. L’industria, in particolare per quanto attiene al cosiddetto fast fashion, utilizza anche sostanze chimiche nocive, sia per la tintura che per il trattamento dei tessuti, con gravi conseguenze per l’ecosistema locale e la salute delle comunità vicine agli impianti produttivi, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dove le normative ambientali sono meno rigide.
Sul fronte sociale, oltre alle deplorevoli condizioni lavorative, l’industria della moda è coinvolta in pratiche di sfruttamento su larga scala. Circa 75 milioni di persone lavorano nel settore tessile e dell’abbigliamento, con un’alta concentrazione di manodopera nei paesi del Sud del mondo. Gran parte di questi lavoratori non gode di salari dignitosi né di protezioni sindacali adeguate, continuando a essere vittime di abusi e sfruttamento per mantenere bassi i costi di produzione. Questo rende chiaro come l’industria della moda, così com’è strutturata oggi, contribuisca non solo a peggiorare l’impatto ambientale globale, ma anche a perpetuare ingiustizie sociali profonde.
Lo smaltimento dei rifiuti tessili rappresenta un ulteriore problema: una pratica in costante aumento negli ultimi anni consiste nell’esportare i capi usati nei paesi extra-OCSE, dove diventano rifiuti tossici, ad alto contenuto di plastica, che inquinano le terre e le acque locali. Le immagini di montagne di vestiti inutilizzabili, ammassati in discariche a cielo aperto in Ghana o Kenya, sono la triste conseguenza di un sistema produttivo lineare che non considera il ciclo di vita completo dei prodotti.
La moda sostenibile: una sfida possibile
A fronte di questa situazione, il concetto di “moda sostenibile” si fa sempre più strada. Ma cosa significa veramente? La moda sostenibile non si limita a ridurre l’impatto ambientale del ciclo di vita del prodotto, ma include nel ragionamento anche considerazioni di carattere sociale ed economico.
Come confermato dalla nuova proposta di Regolamento europeo sull’Ecodesign, la ricetta per un’evoluzione del settore della moda in un’ottica sostenibile sta anzitutto nella scelta di materie prime più ecocompatibili, come fibre organiche o materiali riciclati, che richiedano meno risorse per essere prodotti. Un altro aspetto fondamentale è l’attenzione alle condizioni di lavoro dei lavoratori lungo tutta la filiera, con la garanzia di salari equi e ambienti di lavoro sicuri. Al fast fashion, basato su un modello di produzione “usa e getta”, che genera tonnellate di rifiuti tessili ogni anno e sfrutta risorse naturali a ritmi insostenibili, si oppongono prodotti durevoli, destinati a una vita lunga e a un ciclo di utilizzo più ampio. Infine, la moda sostenibile promuove la circolarità: i prodotti devono essere pensati non solo per il loro utilizzo, ma anche per il loro fine vita, attraverso il riciclo o il riuso. Questo approccio riduce la necessità di nuove risorse e minimizza i rifiuti, contribuendo a mitigare l’impatto ambientale complessivo dell’industria.
Dall’ultimo rapporto sulla “Just Fashion Transition” della European House Ambrosetti (2023) risulta che il 58% dei consumatori globali considerino la sostenibilità un valore guida per la scelta dei prodotti. Tuttavia, ad oggi, il costo dei capi sostenibili e la carenza di informazioni relative al ciclo di vita del prodotto, risultano i principali ostacoli per acquisti consapevoli.
Un’alternativa emergente per affrontare il problema dello spreco nell’industria della moda e contribuire ad una filiera sostenibile è il mercato dell’usato. Piattaforme digitali, negozi fisici e mercatini vintage stanno guadagnando popolarità, soprattutto nella Gen Z, trasformando la percezione del riuso da necessità a scelta consapevole e di stile.
La Redazione