Il giorno in cui abbiamo sovrasfruttato l’ambiente
Nel 2021 questo giorno è stato alla fine di luglio, ma il trend è certamente negativo rispetto al passato. Negli anni ‘70, infatti coincideva con la prima quindicina di dicembre. In soli cinquant’anni il limite del consumo sostenibile si è quindi spostato di cinque mesi, e ci si aspetta un’accelerazione se le condizioni di produzione e consumo rimarranno le stesse di oggi. Condizione che sappiamo non essere attuabile o possibile per svariati fattori: primo fra tutti l’aumento della popolazione mondiale e l’allargamento del consumo di derivazione industriale.
Con una comparazione efficace, potremmo dire che nel 2021 abbiamo utilizzato circa 1,7 Terre per soddisfare la richiesta di risorse per le attività umane.
Per fortuna, nei Paesi sviluppati si assiste anche ad una nuova coscienza collettiva, produttiva e legislativa, favorevole a premiare modelli sostenibili, di produzione e consumo, e a vincolarne altri dannosi.
Uno di questi Paesi è l’Italia, poiché è inserito in un contesto legislativo europeo che percepisce anche nelle azioni del PNRR un grande incentivo a rivedere i modelli di produzione in un’ottica green. Invece sulla capacità attuale del nostro Paese di rendere efficienti e di usare correttamente le risorse, c’è ancora molto da lavorare. Infatti, l’Italy Overshoot Day è la nostra nota dolente perché nel 2022 cade il 15 maggio, con un delta molto negativo rispetto alla giornata mondiale.
Come si calcola l’Overshoot Day?
Grazie al contributo del Global Footprint Network, un organismo internazionale indipendente che sviluppa e promuove strumenti per la sostenibilità, ogni anno possiamo stimare quanto velocemente consumiamo le risorse terrestri. Sia come pianeta in generale, sia come Paesi singolarmente.
Per calcolarlo è necessario dividere la biocapacità del pianeta o del Paese (la quantità di risorse ecologiche che la Terra o il Paese è in grado di generare in quell’anno) per l’impronta ecologica dell’umanità (la domanda dell’umanità per quell’anno). Questo rapporto viene moltiplicato per 365 per ottenere la data in cui viene raggiunto l’Overshoot Day.
Se l’impronta ecologica di un Paese supera la sua biocapacità di rigenerare risorse, significa che quel Paese deve sfruttare l’energia creata da altre nazioni. Per sostenere le nostre richieste, stiamo esaurendo le risorse di capitale naturale e stiamo consentendo all’anidride carbonica di accumularsi nell’atmosfera.
In Italia, quindi, la nostra impronta ecologica assume maggiore importanza. Ciò che consumiamo e come lo consumiamo diventa centrale per un approccio individuale e collettivo virtuoso sull’impronta ambientale. Tutto ciò che usiamo, indossiamo, compriamo, vendiamo e mangiamo richiede risorse per essere prodotto.
Ad esempio, il cibo ha una sua impronta ambientale, nella produzione, distribuzione e consumo. I costi ambientali di produzione non sono solamente legati alle materie prime ma anche ai cosiddetti costi indiretti di produzione come il consumo di suolo per l’agricoltura intensiva e il consumo di acqua.
A differenza di altre risorse naturali come il greggio utilizzato per la combustione e l’energia, l’acqua ha la caratteristica di essere rinnovabile, in quanto ha un suo ciclo di vita specifico: viene utilizzata e non consumata. Questo è certamente un fattore positivo ma che non ci deve distrarre da quanto e come venga utilizzata per la produzione dei nostri cibi preferiti.
Infatti, secondo il Water Footprint Network (piattaforma internazionale di collaborazione per la risoluzione di crisi idriche mondiali), l’impronta idrica del cibo è il calcolo dell’appropriazione, da parte dell’umanità, di acqua dolce in volumi di acqua consumata e/o inquinata, durante il ciclo di produzione di un determinato alimento, compresi le perdite e i consumi standard della filiera, che possono avere conseguenze sia a livello ambientale che sociale.
Ogni anno nel mondo è necessario più di un quintilione di acqua (1 con 31 zeri):
1/3 viene utilizzato per l’allevamento dei bovini da carne e 1/5 per i bovini da latte.
Il 98% dell’acqua destinata all’allevamento serve in realtà per produrre mangimi, mentre il resto per dar da bere agli animali.
La valutazione dell’impronta idrica è stata strutturata dal Water Footprint Network in un processo in fasi, che quantifica e mappa le impronte idriche, misura la sostenibilità, l’efficienza e l’equità dell’uso dell’acqua, e identifica quali azioni strategiche dovrebbero essere prioritarie per rendere sostenibile un’impronta idrica.
Il calcolo dell’impronta idrica globale è dato dalla somma di tre elementi:
- Impronta idrica blu: il volume di acque superficiali e sotterranee utilizzate per scopi agricoli, domestici e industriali. Al termine del processo produttivo, quest’acqua dolce non ritorna nel punto in cui è stata prelevata.
- Impronta idrica verde: è il volume di acqua piovana accumulata nel suolo dalle radici, che evapora, traspira o viene incorporata dalle piante. È particolarmente rilevante per i prodotti agricoli.
- Impronta idrica grigia: è il volume di acqua inquinata, calcolato come il volume di acqua necessario per diluire gli inquinanti e ripristinare gli standard di qualità naturali. Con questo metodo è possibile valutare l’effettivo peso idrico di coltivazioni, allevamenti e tutte le produzioni che coinvolgono il settore agroalimentare e non solo.
Ad esempio, oggi sappiamo che la produzione di un chilogrammo di carne richiede circa 15mila litri di acqua, dei quali il 93% è impronta idrica verde, il 4% blu e il 3% grigia. È facile intuire quindi, come l’impronta idrica verde sia quella maggiormente rilevante e, allo stesso tempo, anche quella più influenzata dai cambiamenti climatici.
Il sito del Water Footprint Network mette anche a disposizione un calcolatore per verificare quanta acqua consumiamo con il nostro stile di vita e, di conseguenza, la nostra impronta idrica.
In questo caso lo abbiamo utilizzato per confrontare l’impatto idrico che deriva dal produrre 1 kg degli alimenti più comuni:
Mela | 822 l/kg | Maiale | 5.988 l/kg |
Burro | 5.553 l/kg | Pasta | 1.849 l/kg |
Carne di manzo | 15.415 l/kg | Olive | 3.015 l/kg |
Banane | 790 l/kg | Mais | 1.222 l/kg |
Vino | 870 l/kg | Lattuga | 5.520 l/kg |
Pomodori | 214 l/kg | Uova | 3.300 l/kg |
Caffè | 18.900 l/kg | Latte | 1.020 l/kg |
Riso | 2.497 l/kg |
Come vediamo, l’impronta idrica dei cibi può cambiare a seconda dell’alimento che viene prodotto e ci permette di essere consapevoli del nostro impatto ambientale in merito alla nostra alimentazione. Inoltre, ci consente di calcolare quanta acqua dolce è necessaria per alimentare l’intera filiera, dove questo accade e con che impatto. Si tratta di dati utili per sviluppare ulteriori ricerche per soluzioni sempre più sostenibili.
Cosa possiamo fare noi?
In primo luogo, possiamo ridurre il consumo di alimenti con un ingente impatto idrico.
Per esempio, diminuendo il consumo di carne di manzo rispetto a quella di pollo, scegliendo il tè al posto del caffè e, in generale, adottando soluzioni sostenibili.
La chiave, ancora una volta, è quella della consapevolezza di cosa e quanto si mette nel carrello della spesa.
In futuro, scegliere i cibi in funzione degli impatti ambientali è un elemento che dovrà sempre di più caratterizzare le nostre scelte di consumo, parallelamente alla riduzione gli sprechi.
Dietro a ciascuno prodotto gettato, c’è un indotto naturale, di risorse e idrico, che non possiamo più permetterci di consumare.
Andrea Briganti
Founder e CEO ThinkAbout