Rigenerare ecosistemi contro la desertificazione in Africa
Gli effetti del cambiamento climatico si verificano con sempre maggiore frequenza e intensità nel continente africano, provocando fenomeni di desertificazione e mettendo a rischio la sicurezza alimentare delle comunità locali, soprattutto nella zona del Corno d’Africa. Per affrontare queste sfide, il progetto della Grande Muraglia Verde punta a ripristinare terre degradate, combattere la desertificazione e promuovere la resilienza climatica nella regione.
Nei precedenti approfondimenti abbiamo esplorato il tema della giustizia climatica, ossia il riconoscimento degli impatti diseguali che il cambiamento climatico ha sulle popolazioni più svantaggiate. Queste popolazioni vengono definite vulnerabili in quanto non possiedono le risorse economiche, culturali e sociali per essere resilienti nei confronti del cambiamento climatico, il quale aggrava situazioni già di per sé fragili. Questo si verifica in gran parte del territorio africano e in particolare nel Corno d’Africa, una delle regioni del mondo più vulnerabili sotto questo punto di vista. Essa è situata nella parte orientale del continente africano e comprende Eritrea, Etiopia, Gibuti, Somalia e Sudan. A partire dal 2020, la crisi climatica ha colpito duramente il Corno d’Africa e ha compromesso non solo l’ambiente, ma anche la sicurezza alimentare e il benessere delle popolazioni locali, aggravando le già difficili condizioni socioeconomiche della regione.
Tale area si trova ad affrontare gravi problemi ambientali che mettono in pericolo sia gli ecosistemi locali che le comunità umane. Uno dei fenomeni più impattanti è la desertificazione, che distrugge habitat fondamentali per molte specie animali e vegetali. Sua diretta conseguenza è la significativa perdita di biodiversità: la scomparsa di specie chiave altera, infatti, gli equilibri ecologici e minaccia la sopravvivenza di interi ecosistemi. Inoltre, siccità ed erosione del suolo riducono la fertilità delle terre, limitando così le risorse alimentari disponibili sia per l’agricoltura che per la fauna selvatica.
Tra il 2020 e il 2023, Kenya, Etiopia e Somalia hanno vissuto un prolungato periodo di siccità, con oltre cinque anni consecutivi di precipitazioni assenti. Questo fenomeno ha avuto gravi conseguenze per le comunità locali, tra cui carenza di acqua potabile, scarsità di cibo, aumento dei prezzi delle risorse alimentari disponibili e migrazioni climatiche forzate. Alla lunga siccità si sono aggiunte intense inondazioni a partire dalla fine del 2023, seguite da episodi di maltempo particolarmente violenti nel maggio 2024. Le inondazioni, infatti, rappresentano una conseguenza frequente della siccità: terreni secchi e aridi non riescono ad assorbire efficacemente l’acqua, favorendo fenomeni di accumulo superficiale. Tali episodi alluvionali hanno causato numerosi morti e lo sfollamento di circa settecentomila persone, che sono state costrette a lasciare le loro case.
Un’ ulteriore conseguenza dell’intensificarsi degli effetti del cambiamento climatico risiede nell’aumento delle disuguaglianze di genere. Nella regione, l’accesso alla proprietà terriera e alle opportunità di lavoro è già caratterizzato da profonde disuguaglianze. Ad eccezione del settore agricolo, le donne rappresentano appena il 30% della forza lavoro complessiva e subiscono significative disparità salariali che aggravano la loro condizione di svantaggio economico. Nelle aree rurali, la responsabilità di procurare acqua e legna da ardere ricade esclusivamente sulle donne. Con l’aumento della scarsità di risorse, queste sono costrette a percorrere distanze sempre maggiori, affrontando non solo un carico di lavoro più pesante ma anche un rischio accresciuto di aggressioni. Inoltre, quando le condizioni economiche familiari peggiorano, sono spesso le ragazze le prime a dover abbandonare la scuola, nonostante abbiano, in genere, risultati migliori rispetto ai ragazzi. Infine, in situazioni di stress emotivo causato dai cambiamenti climatici, esiste anche il rischio di un aumento dei casi di violenza domestica in alcune comunità.
Il progetto ambizioso della Grande Muraglia Verde
La risposta di questi paesi del Corno d’Africa è arrivata e si è unita a quella di altri stati nella regione del Sahel, la fascia di territorio dell’Africa subsahariana che attraversa in senso longitudinale il continente e presenta un clima semi arido, di transizione tra il deserto a nord e la savana a sud. Nell’ultimo secolo, il Sahara ha aumentato la sua estensione del 10% e, per contrastarne l’avanzamento, l’Unione Africana ha avviato nel 2007 il progetto della Grande Muraglia Verde (Great Green Wall, GGW). L’iniziativa mira a ripristinare 100 milioni di ettari di terre degradate, sequestrare 250 milioni di tonnellate di CO₂ e creare 10 milioni di posti di lavoro entro il 2030.
Ad oggi, meno del 10% dell’obiettivo è stato raggiunto, ma gli esperti restano ottimisti sull’importanza del progetto per le comunità locali e la stabilità della regione. Successivamente ad alcune critiche iniziali riguardanti le piantagioni non adatte agli ecosistemi locali, il progetto si è sviluppato basandosi su un approccio rigenerativo, che punta a ricostruire gli ecosistemi attraverso specie autoctone e una gestione sostenibile dell’acqua.
Nel 2021 è stato lanciato il Great Green Wall Accelerator per rafforzare il progetto con un impegno di 14,3 miliardi di dollari e un focus su governance, ecosistemi, resilienza climatica e sviluppo economico. La meccanizzazione e l’innovazione, tramite l’uso di aratri avanzati e microdighe, si sono rivelate fondamentali per proseguire i lavori in maniera efficiente. Date la sua complessità e ampiezza, il progetto richiede finanziamenti significativi: 8 miliardi di dollari all’anno per rispettare la scadenza del 2030. Nonostante gli impegni per 20 miliardi entro il 2025, solo una frazione è stata finora effettivamente erogata, rendendo cruciale il supporto internazionale e una migliore gestione delle risorse.
La Grande Muraglia Verde non è solo una risposta alla crisi ambientale, ma un’opportunità per creare prosperità economica, ridurre conflitti e promuovere lo sviluppo sostenibile in una delle regioni più vulnerabili al cambiamento climatico.
Di Giulia Abbondanza